
di
Claudio Celentano
produzione D4 Roma - Francesco Lauro
sinossi e testo di Luca Anastasio
Dakar, Senegal: ritmata, ipercromatica, materica, africana. Tesa anima e corpo verso l’occidente, la città più importante dell’Africa centro occidentale, si affaccia sull’Oceano Atlantico all’estremità della penisola di Capo Verde. E’ una metropoli con più di un milione di abitanti e un’economia discretamente ricca e votata al commercio sin dai tempi del colonialismo francese.
Bamako, Mali: polverosa, affannata, antica, disgregata. Situata accanto alle rapide del fiume Niger, poco distante dalle porte del deserto, conta oltre un milione e mezzo di abitanti in cerca di fortuna.
Fra le due capitali: un pezzo di continente. Pianure rosse dove improvvisamente svetta un’acacia, valli rocciose percorse da torrenti, villaggi di capanne, periferie fatiscenti, acquitrini, foreste di baobab, il deserto, la savana, orizzonti troppo vasti, fuori portata anche per un grandangolo. 1280 Km d’Africa, solcati da due binari discretamente paralleli risalenti all’epoca del colonialismo.
L’African Express, un improbabile treno assemblato con vagoni di seconda mano donato da governo dalla Francia, vi si trascina sopra senza fretta, creando, una volta alla settimana, un collegamento fra i due centri urbani. E’ l’Africa che si muove. Placida, ritmica, quasi mai disperata, ostacolata dalla forza di una natura che sa ancora farsi rispettare, da mille intoppi, da frequenti deragliamenti. E’ l’Africa che prova a muoversi.
Stipati assieme a sacchi di farina, balle di indumenti, bidoni di pesce e mercanzie di ogni genere, a ogni viaggio l’African Express trasporta circa mille fra uomini, donne e bambini. Sono famiglie in pellegrinaggio, giovani che vanno a trovare i propri familiari, studenti islamici, nullatenenti in cerca di fortuna, uno o due turisti europei e, soprattutto, commercianti in viaggio di lavoro.
Il treno che da Dakar porta a Bamako è un treno carico di storie, una miniera di racconti, inganni, incontri, speranze, che sfilano in lento movimento nel cuore dell’Africa immobile dei baobab, dei villaggi di paglia e fango, dei tramonti preistorici. E’ l’Africa che si muove, dignitosa, nell’Africa che non si è mai mossa.
L’African Express parte da Dakar nella luce accecante del primo pomeriggio, puntando il sole dritto negli occhi. A mano a mano che procede la sua corsa si lascia alle spalle la più occidentale delle città africane per inoltrarsi nel cuore del continente. Quando ancora dai finestrini si possono vedere vecchi motorini ronzare attorno ai binari, ci si accorge di come la temperatura non sia più mitigata dal mare, di come gli odori siano cambiati gradualmente e, a poco a poco, ci si ritrova immersi, a 30 Km all’ora, in qualcosa di silenzioso, eterno, uterino. All’interno invece il treno si trasforma in un microcosmo caotico, rumoroso, estremamente eterogeneo, simbolo della capacità di aggregazione e delle contraddizioni tipiche del continente africano. Tutti, quelli che hanno un posto prenotato in prima classe, quelli che si sono guadagnati con destrezza un sediolino di pelle logora in seconda, quelli che sono rimasti seduti a terra, quelli che viaggiano senza biglietto sul tetto dei vagoni, tutti, vanno a formare un unico organismo perfettamente integrato e in splendido contrasto con l’immobilità del contesto esterno. Un turbine di ruote, mani, corani stampati, cibi di ogni genere, orecchini, bagagli, mappe, sguardi, parole pronunciate negli idiomi più disparati. Si mangia, si prega, ci si difende dal caldo e dagli insetti e, soprattutto, si racconta. Attraversando le pianure, rasentando i termitai, il deserto, in giro per i vagoni o distesi sull’erba all’ombra di un grosso albero in attesa che il treno riparta, è impossibile non inciampare in una storia, una cantilena, un aneddoto...
E c’è, a parte la carovana dei viaggiatori, anche tutto un universo di personaggi che ruota attorno al leggendario African Express e al suo passaggio. Gli addetti ai lavori, orgogliosi della propria funzione e sempre pronti a raccontare la storia dell’epico treno, le schiere di mendicanti, invalidi, bambini che alle stazioni si accalcano ai finestrini elemosinando qualche spicciolo, i ragazzini ammassati ai lati dei binari che rincorrono, gridano, ridono, le orde di venditori ambulanti, che ad ogni sosta assaltano il treno propinando ai viaggiatori carne di montone, frutti tropicali, sigarette scadenti, vecchi walkman e cappellini.
E’ questo il tesoro nascosto dell’Express, è questa la magia che lo avvolge. Sul treno per Bamako si intraprende un viaggio diretto al cuore dell’Africa, e i volti della gente sono le sue stazioni.
Un viaggio alla riscoperta del significato della parola “tempo”, quello più antico. Il tempo dei giorni, caldi e insopportabilmente luminosi, e delle notti, buie come un occidentale non sa immaginare. Un tempo dilatato, che comincia a essere tale già in stazione, nell’attesa rassegnata della partenza, e poi si espande, nelle pianure attraversate a passo d’uomo, nelle soste interminabili in mezzo al nulla, di notte, dove a nessuno viene in mente di domandarsi a che ora il treno ripartirà.
Forse, domani, l’African Express arriverà a Bamako.